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De André, un poeta in fuga – PianetaGenoa1893

De André
(foto tratta da video Fondazione De André)

I mille papaveri rossi gli fanno veglia ormai da ventiquattro anni. Non ebbe il coraggio di «crepare di maggio», al contrario di Piero, il soldato protagonista del brano che secondo Vecchioni rappresenta il centro della poetica di Fabrizio De André. Un uomo che muore, vinto dal potere che non perdona, e giace tra le spighe di grano omaggiando un sonetto di Rimbaud è il freddo prodotto degli ordini di guerra: una ballata a dir poco attuale. Piero è un fuggiasco della guerra e la fuga è il tema conduttore di Faber. Ancorché intimamente, i suoi personaggi fuggono tutti: da qualcosa o qualcuno, da sé stessi come Fernandinho in “Prinçesa”, o da una maschera. Fuggì lo stesso De André, in Gallura, e lì definì Genova «una città soprattutto da rimpiangere», vista dall’alto e da lontano come può solo suggerire la prospettiva di Maqroll, l’incollocabile gabbiere nato dalla penna di Alvaro Mutis.

Faber scriveva storie per sfuggire al controllo, al ricatto. La sua fuga finì nella trappola delle antologie, che comunque ne apprezzano il rigore discografico avendo aperto e chiuso con una preghiera (in gennaio e smisurata) la propria stagione di inediti: appagato l’orgoglio, provava un fastidio anarcoide «perché i ragazzi e le ragazze sono obbligati a studiare i miei testi a memoria, senza che gli sia data scelta». Scriveva nelle lingue del mediterraneo e componeva con cura: basta una sola nota, o un accordo, per richiamare alla mente un verso preciso di un brano che, se isolato, assume un significato autosufficiente a esprimere un valore. Semplicemente è poesia. Battiato non concluse l’esecuzione di “Amore che vieni, amore che vai” sopraffatto dall’emozione, talune profondità che De André raggiunse nella ritrovata “Dai Monti della Savoia” sono telluriche e arrivano al cuore non meno della storia di Teresa, la figlia del droghiere di Rimini.

I testi di Fabrizio, così come si presentò al pubblico omettendo il proprio cognome pesante, sono come un buon whisky che migliora invecchiando, o più verosimilmente il whisky siamo noi stessi che invecchiamo e non sempre miglioriamo. «Cosa importa se sono caduto, se sono lontano»: potrebbe essere una frase da scrivere in rossoblù. Niente di più genoano. Come la stima reciproca con Giggirivva, conosciuto a Genova dopo una partita, e l’amore mai nascosto dal funambolico Dio Zigo, calciatori dediti alla fuga dall’avversario che darebbero spessore a una nuova riedizione di Spoon River. Tra costoro non sfigurerebbe neppure la figura angolare di Arturo Silvestri, al secolo Sandokan e fido protettore del Gre-no-li milanista degli Anni ’50, allenatore che i tifosi del Genoa ricordano di rado sebbene riportò il Grifone in Serie A nel “Giugno ’73”. Curioso ricapitare e riprovarci cinquant’anni dopo. La vita è ciclica. Le parole «sono nomadi». Fuggono anche loro.


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