Roma, 6 feb – La sera di domenica 5 febbraio ha chiuso i suoi giorni in Lunigiana il professor Renato Del Ponte, figura di primo piano di quegli “studi tradizionali” e di quella particolare facies spiritualista della “cultura di Destra” che hanno avuto in Italia il loro indiscusso iniziatore in Julius Evola. La sua nascita “solstiziale”, il 21 dicembre del 1944, e un nome e cognome che insieme avevano già un sapore “iniziatico”, forse uno di quegli antichi auguri o auruspici oggetto dei suoi studi li avrebbe interpretati come un segno di un favorevole destino spirituale. Nato a Lodi, ma genovese d’adozione, i suoi primi passi “pubblici” furono, già liceale, nell’ambiente politico della “Giovane Italia” e poi, iscrittosi alla Facoltà di Lettere, in quello del FUAN. Ed è a ridosso del ’68 che avviene, come per altri giovani di Destra, il suo incontro con il pensiero di Evola, premessa di un diretto contatto con il Filosofo, di cui seguirà gli indirizzi fondando nel 1970 con altri giovani genovesi il Centro Studi Evoliani, che ebbe presto diramazioni nel resto d’Italia e anche all’estero, ma soprattutto varando nel 1972 la rivista di studi tradizionali Arthos, ancor oggi viva e vegeta, rimasta sempre la sua “creatura prediletta”. Noto e citato soprattutto come “evoliano”, Renato Del Ponte però non può assolutamente essere racchiuso in quell’aggettivo che senz’altro ne connota, inteso in modo rigido, la militanza culturale degli anni ’70, ma che poi, per gli anni a seguire, andrebbe applicato per indicare soprattutto uno “spirito” con cui guardare alla vita e alla storia, non certo un pedissequo “evolismo”.
Renato Del Ponte, l’attività culturale e spirituale
Vista nella sua complessità e integralità, l’attività culturale e spirituale di Renato Del Ponte si è ramificata in tre direzioni, che sono state percorse parallelamente, spesso intrecciandosi. La prima, è stata quella degli studi evoliani. Ottimo conoscitore dell’opera omnia, non si cimentò tuttavia mai, se si esclude il saggio su Evola e il magico “Gruppo di Ur” (1994), nella scrittura di un “suo” libro su Evola, ma diede un contributo notevole alla conoscenza del suo Maestro con l’accurata pubblicazione di antologie degli scritti (quella a lui più cara e la più fortunata fu Meditazioni delle vette, con prima edizione nel 1974; per il resto basti qui ricordare Simboli della Tradizione Occidentale del 1976 e I saggi di dottrina politica del 1979) e una rigorosa, imprescindibile Bibliografia 1920-1994 apparsa sul n° monografico di Futuro Presente dedicato ad Evola nel 1995. Del resto il suo più grande omaggio al Filosofo riteneva probabilmente di averlo offerto nella fedeltà dimostratagli dopo la morte, nell’estate del 1974, che lo vide tra i principali protagonisti dell’esecuzione delle sue volontà testamentarie, dalla cremazione alla deposizione dell’urna cineraria sul Monte Rosa. Grande amarezza gli procurò, nel 2017, la diffusione di un racconto di quell’impresa che metteva in dubbio perfino la sua presenza nella cordata alpinistica, e a cui rispose a malincuore, ma con assoluta precisione di dettagli, con un Dossier pubblicato su Arthos n° 28.
Dai suoi studi classici, e dagli scritti “pagani” di Evola, Del Ponte aveva maturato, sul finire degli anni ’70, un più netto interesse, entro quello che Evola aveva chiamato il “Mondo della Tradizione”, per la religiosità precristiana dell’Italia antica e di Roma. E questo interesse lo portò senz’altro oltre Evola, acquisendo una conoscenza e una comprensione di quella religiosità notevolmente superiore rispetto a quella del suo Maestro. Da questi, però, aveva appreso e trasmesso ai suoi più giovani “allievi” (tra cui chi scrive sente l’onore di essere annoverato) la necessità di un approccio al mondo antico dei miti, dei riti, dei simboli diverso dalle ordinarie abitudini dei circoli e degli autori “esoterici”, seguendo un principio che lo stesso Evola già nel 1929 su Krur così aveva delineato: “Un nostro principio, è quello dell’oppurtunità che oggi conoscenze tradizionali vengano ad esprimersi dalle stesse forme della cultura ‘laica’; e questo per una doppia ragione: 1) affinché tali conoscenze possano avere anche un riconoscimento indipendente; 2) affinché si stabiliscano dei punti spontanei di contatto per un eventuale passaggio dal piano culturale d’oggi ad un piano superiore”. È sotto questa luce che nascono i libri, tanto eruditi quanto di piacevole lettura e spiritualmente formativi, che lo fanno riconoscere anche in ambienti accademici come un serio studioso della nostra antichità: Dei e miti italici (1985), La religione dei Romani (1992), I Liguri, etnogenesi di un popolo (1999), La città degli dèi (2003), Favete linguis! (2010), cui seguono le recentissime antologie Il grande Medioevo (2021) e Roma Amor (2022). Col nuovo secolo sarà costantemente presente, anche come relatore ufficiale, ai prestigiosi Seminari internazionali di studi storici “Da Roma alla Terza Roma”, organizzati in Campidoglio per il Natale di Roma dall’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” del CNR e dall’Istituto di Storia Russa dell’Accademia delle Scienze di Russia con la collaborazione de “La Sapienza”. Nel 2008 diventerà membro della Società italiana di Storia delle Religioni.
La riscoperta del “Sacro” romano-italico
Questo suo amore per l’Italia antica e per Roma (e con ciò entriamo nella terza direzione) non fu solo quello di uno studioso: un discepolo di Evola non poteva esaurire il suo interesse in una visione puramente erudita di quel mondo. Profonde, meditate riflessioni lo avevano portato a ritenere che gli archetipi spirituali della Saturnia Tellus fossero presenze “eterne”, riattivabili da una aggiornata pietas. Tutto ciò era periodicamente avvenuto nella storia post-antica, e ne tentò un racconto, breve ma efficace, nel suo volumetto Il movimento tradizionalista romano nel Novecento (1986 e 1987), che in realtà parlava anche di Rinascimento e Risorgimento, dando voce ad un iniziale rettifica degli stessi giudizi evoliani su quei periodi storici. Ma con quello stesso nome, Movimento Tradizionalista Romano, tra il 1985 e il 1988, con i siciliani Salvatore Ruta (1923-2001) e Roberto Incardona, darà vita ad una realtà associativa nazionale tesa ad una effettiva riscoperta del “Sacro” romano-italico, in forme culturalmente ben fondate e prive di quegli aspetti “ricostruzionistici” e un po’ “spettacolari” che poi invece hanno finito per divenire prevalenti ai giorni nostri nell’area “politeista”. Anche di quell’esperienza, entrata in crisi nel 2009, dovette cogliere qualche frutto amaro, pur nella certezza che niente di ciò che aveva fatto era stato vano e vi era chi, lui progressivamente ritiratosi da impegni comunitari, continuava a seguirne gli indirizzi.
Dagli anni ’80 aveva preso a pubblicare ogni anno un apprezzatissimo Kalendarium romano. Mi piace pensare che egli sia stato cosciente di morire nelle None di Febbraio, nel giorno in cui i Romani celebravano l’assunzione del titolo di Pater Patriae da parte di Augusto nel Tempio della Concordia in Arce. Agli affezionati suoi estimatori e lettori restano i suoi preziosi testi e la rivista Arthos, che le genovesi Edizioni Arya del suo devoto amico Nicola Crea continueranno a pubblicare (con un primo volume di imminente uscita) in una formula nuova, e senza mai dimenticarlo.
Sandro Consolato
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