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Maria Chiara Roti racconta l’impegno della Fondazione Ronald McDonald

Ronald McDonald House Charities è oggi un’organizzazione internazionale che opera in 64 Paesi grazie all’aiuto di 536.000 volontari. Tra questi, dal 1999 c’è anche l’Italia, dove la Fondazione per l’Infanzia Ronald McDonald si è data l’obiettivo di aiutare i bambini malati e in condizione di disagio ad avere un futuro migliore.

Questo impegno viene realizzato attraverso una serie di iniziative umanitarie e scientifiche che coinvolgono i bambini e le loro famiglie: in tutti questi anni, infatti, la Fondazione è sempre stata presente con operazioni di ristrutturazione ed allestimento di nuove aree di degenza interne agli ospedali e con la donazione di apparecchiature mediche in alcuni dei maggiori Ospedali Pediatrici italiani.

L’opera principale è stata quella di aprire e gestire le Case Ronald vicino ai principali centri pediatrici in Italia e le Family Room all’interno dei padiglioni pediatrici dei principali ospedali italiani. Il programma Family Room rappresenta una risposta concreta da parte di Fondazione per l’Infanzia Ronald McDonald al tema del sostegno alle famiglie dei piccoli pazienti in cura presso le eccellenze ospedaliere del territorio e a quello ancora più annoso della migrazione sanitaria.

Maria Chiara Roti è il Direttore Generale di Fondazione Ronald McDonald Italia: l’abbiamo incontrata e abbiamo parlato con lei dell’importanza della Fondazione e del terzo settore in Italia.

Una volta arrivati qui, ci si sente pienamente a casa: in che modo avete pensato agli spazi, anche dal punto di vista architettonico?
Le Family Room rispondono a dei criteri architettonici che sono uno standard della nostra organizzazione, che da 50 anni nel mondo e da oltre 20 in Italia accoglie e cura le famiglie e i bambini che stanno vivendo la malattia. Innanzi tutto, si tratta di stanza ampie e luminose, con spazi suddivisi per unità familiare così da fare in modo che ogni nucleo rimanga unito. E poi abbiamo pensato di dare una grandissima spinta agli spazi comuni, perché è qui che si promuove quello che viene definito “Family Center Care”, ovvero riportare al centro la famiglia nel processo di cura del bambino, con esiti più veloci e positivi. Ecco perché si cucina assieme, si mangia assieme, si guarda la tv tutti insieme, proprio grazie agli spazi comuni. In questa casa ci sono anche altre aree, come la smart working room, alla quale avevamo pensato già prima della pandemia ed è diventata poi una commodity. Per quanto riguarda la parte estetica, ovvero i colori e gli arredi, li abbiamo scelti insieme al nostro studio di architetti, grazie a McDonald’s, la nostra azienda fondatrice che ha un panel di fornitori ampio e a disposizione della Fondazione. Abbiamo cercato di scegliere dei materiali di alta gamma soprattutto per un tema di durabilità, così da garantire che non venga interrotta la cura alle nostre famiglie.

Siete presenti in Italia dal 1999 con la Fondazione, le va di fare un bilancio di tutti questi anni?
Personalmente sono in Fondazione da tre anni e mi è stata consegnata una realtà importante, forse soltanto un po’ silenziosa fino a questo momento. Una realtà che faceva molto bene la sua missione, ma si si era aperta poco ai territori. È una Fondazione che ha quasi 25 anni, ma si sta rinnovando. Perché i contesti mutano quotidianamente, basti pensare a quello che ci ha insegnato l’esperienza del Covid. Oggi la Fondazione risponde a tre criteri della sanità italiana: il primo è la deospitalizzazione: si sta in ospedale meno notti, si fanno cure sempre più mirate e specializzate, puntando alla prevenzione. Il secondo è quello dell’umanizzazione delle cure: in una sanità sempre più tecnologica e basata – per fortuna – sulla ricerca, il rischio è di perdere il contatto con i medici e il personale sanitario. Ecco che questi luoghi, così familiari, riportano al centro la persona, realizzando quello che la sanità stessa vuole. Infine, un altro aspetto importante da tenere in considerazione è la cronicità delle malattie: oggi si arriva a convivere anche con patologie molto complesse, come quelle neurologiche o quelle oncologiche. Servono quindi luoghi che possano accogliere i bambini e le loro famiglie durante i controlli, le cure e le verifiche, per rimanere agganciati agli ospedali di riferimento.

Lo scenario macroeconomico è in continuo mutamento, non sempre in positivo. Come vede il futuro del terzo settore in Italia?
Quando circa dieci anni fa ho iniziato a lavorare nel terzo settore – durante un cambio di vita e di carriera – perfino la mia famiglia che ha molta sensibilità pensava stessi facendo una scelta un po’ azzardata. Erano gli anni in cui stava emergendo un nuovo settore, che grazie anche a varie riforme, occupa oggi tantissime persone in Italia e risponde a tanti servizi sociosanitari, ambientali, formativi ed educativi. Si tratta ormai di un mondo necessario, sia perché dà spazio al volontariato, una risorsa importantissima ed irrinunciabile del nostro Paese, sia perché è un luogo di professionisti sempre più formati. Siamo diventati finalmente degli interlocutori primari nei Ministeri, nelle Regioni e nei Comuni, sedendo allo stesso tavolo dei decision maker per capire come sia più corretto operare sui territori nei quali lavoriamo. La vera sfida sarà quella della sostenibilità, perché si tratta di un settore che non produce fondi per sua natura, tranne in alcuni eccezionali casi di impresa sociale. E quella della misurabilità, iniziando a misurare il valore e l’impatto del terzo settore con studi concreti e universali.

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