Si tratta di una grossa decisione che potrebbe avere effetti estesi sul funzionamento dell’interconnessione delle reti europee e per questo motivo tanti sono contrari anche solo a pensarlo.
All’ombra dell’Unione Europea sta prendendo forma una contrapposizione molto rilevante per il futuro delle telecomunicazioni e dello sviluppo del 5G e della fibra ottica.
Si tratta di due elementi fondamentali per la crescita delle infrastrutture e per l’avanzamento tecnologico europeo; ma gli operatori di telecomunicazione stanno investendo più di quanto riescono a sostenere.
Da qui, la domanda: è il caso di far contribuire – e se sì, in che modo – anche le grandi società tecnologiche (come Meta, Alphabet o Netflix) i cui servizi consumano sempre più traffico sulla rete?
In altre parole, queste società sfruttano gli investimenti degli operatori di telecomunicazioni in infrastrutture per erogare servizi digitali che intasano quelle infrastrutture. Spetta anche a loro una quota per migliorare le infrastrutture di rete, che saranno sempre più rilevanti?
La discussione è sfaccettata e per nulla banale: perché dal risultato delle valutazioni emergerà potenzialmente un assetto diverso rispetto a quello attuale con conseguenze difficili da prevedere.
Il punto della questione
Da diverso tempo, le associazioni di categoria che rappresentano, a livello europeo, i principali operatori di telecomunicazione che realizzano le infrastrutture stanno spingendo affinché l’Unione Europea valuti di integrare un contributo allo sviluppo del 5G e della fibra ottica da parte di Big Tech.
Uno studio realizzato dalla European Telecommunications Network Operators Association (ETNO), che riunisce vari operatori europei, fra cui l’italiana TIM, ha sottolineato che nel 2021 gli operatori hanno investito nelle infrastrutture 56,3 miliardi di euro. Invece, le società tecnologiche hanno investito 1 miliardo di euro in infrastrutture e 16 miliardi nei data center.
Per cui, sebbene la cifra complessiva investita dagli operatori sia di 17 miliardi di euro, la maggior parte sono stati finalizzati al proprio tornaconto e non a consolidare un’infrastruttura europea migliore, secondo Alessandro Gropelli, vicedirettore generale di ETNO.
“Il data center è un’altra cosa, che loro fanno per erogare i loro servizi, che sia il cloud o lo streaming”, dice Gropelli in un’intervista a DDAY.it.
Sempre lo studio di ETNO ha evidenziato che mentre i ricavi dei membri dell’associazione nel 2021 sono stati di 0,46 milioni di euro per dipendente, quelli di Netflix sono stati 2,33 milioni, quelli di Alphabet 1,46 milioni e quelli di Meta 2,33 milioni.
“Per noi è un tema di sbilanciamento commerciale”, sostiene Gropelli, che ricorda che gli operatori di telecomunicazione possono negoziare con le altre società un costo per il trasporto del traffico sulla rete. “Si tratta di coprire i costi per la mole di traffico che inviano”.
Qua, però, nasce un primo punto problematico: questa fase di negoziazione spesso non va a buon fine oppure subentrano problemi unilaterali.
Gropelli: “Ristabilire gli ordini di forza sul tavolo”
Il caso più rappresentativo è probabilmente la battaglia legale fra l’operatore tedesco Deutsche Telekom e Meta, che dal 2021 ha interrotto il pagamento degli oneri per il trasporto del traffico. Il problema “deriva dal fatto che anche il più grande degli operatori europei quando si siede al tavolo con una Big Tech non ha la stessa rilevanza”, secondo Gropelli.
“Perciò – prosegue – chiediamo una policy che ristabilisca gli ordini di forza sul tavolo delle negoziazioni fra gli operatori europei e le società tech. Pensiamo che ci darebbe la possibilità di recuperare i costi generati”.
Ma quale sarebbe un contributo ritenuto equo per lo sviluppo delle reti veloci di nuova generazione?
Sebbene Gropelli specifichi che “non sta a noi deciderlo”, un passato studio pubblicato da ETNO a maggio 2022 e commissionato ad Axon Partners Group Consulting faceva riferimento a 20 miliardi di euro come esempio di un contributo annuale da parte delle società tecnologiche. I benefici sarebbero di: 72 miliardi di euro aggiunti al PIL; 840 mila posti di lavoro creati entro il 2025 e una riduzione dei consumi energetici del 28% e delle emissioni fino al 94%.
Rispetto al meccanismo che dovrebbe governare il contributo, per ETNO l’ideale sarebbe un canale diretto fra Big Tech e gli operatori di telecomunicazione europei, ritenendola “la maniera più diretta e più efficace dal punto di vista dell’impatto sugli investimenti”. A una condizione: che venga posto l’obbligo che quel contributo, di qualunque importo sia, venga reindirizzato nello sviluppo e nel miglioramento della rete.
“La Commissione vuole che quei soldi vadano nelle reti”, specifica Gropelli. “Ciò che ci attendiamo è che se il pagamento diretto dovesse concretizzarsi, questo si accompagnerebbe a una richiesta di impegni precisi su dove li spendi quei soldi”.
Al momento, la Commissione Europea sta valutando quale sarà il futuro scenario delle reti europee e per tale ragione, secondo documenti trapelati, sta sottoponendo, attraverso un questione, delle domande a tutti gli attori coinvolti.
Una di queste domande riguarda proprio la possibilità di prevedere un contributo da parte di quelli che definisce “fornitori di applicazioni di contenuti” e “grandi generatori di traffico”.
Il questionario chiede anche come dovrebbe funzionare il meccanismo, a chi dovrebbe essere applicato e l’eventualità che possa impattare l’innovazione nel settore, ha scritto Reuters.
La Commissione Europea sta pensando di far pagare Big Tech per lo sviluppo delle infrastrutture di rete
“Abbiamo bisogno di un assessment onesto di dove siamo, quali sono i gap e cosa dobbiamo fare in futuro per rispettare i nostri obiettivi”, ha spiegato Renate Nikolay, vicedirettrice generale del direttorato generale per le reti di comunicazione, i contenuti e la tecnologia (DG CNECT) della Commissione Europea, durante un webinar organizzato da ETNO per presentare il suo studio.
Nikolay ha sottolineato che molti dei risultati dello studio di ETNO “sono coerenti con quanto riscontrato dalla Commissione” e che “abbiamo bisogno di un rollout più veloce del 5G“.
I pareri contrari
Naturalmente, l’idea ha trovato la contrapposizione di Big Tech, secondo cui un simile sistema impatterebbe l’innovazione. Ma non solo: anche gli operatori virtuali hanno mostrato la loro contrarietà all’idea di un contributo da parte delle società tecnologiche.
Mobile Virtual Network Operator Europe, che riunisce gli operatori virtuali europei, fra cui gli italiani PosteMobile e CoopVoce, ritiene che l’eventuale contributo diretto imposto a Big Tech potrebbe portare a nuovi squilibri di mercato e a genere degli “oligopoli” a vantaggio delle grandi telco.
In particolare, significherebbe “pagare i servizi di rete dei maggiori fornitori di telecomunicazioni non solo due volte (da parte dei clienti e dei fornitori di contenuti e applicazioni), ma addirittura tre volte (cioè anche da parte degli operatori alternativi, che però già pagano le tariffe di accesso alla rete)”.
In pratica, gli operatori virtuali europei hanno paura che se la Commissione Europea assecondasse il volere dei principali operatori di telecomunicazioni, allora potrebbero esserne svantaggiati gli operatori più piccoli.
A tal proposito, Gropelli risponde che il miglioramento delle infrastrutture di rete è a vantaggio anche degli operatori virtuali, che sono così chiamati perché si appoggiano alla rete di un altro operatore, come TIM o Vodafone.
“Gli operatori virtuali fanno bene a dire ‘non dimenticatevi di noi’, ma non investono nelle reti”, dice Gropelli. “La Commissione sta chiedendo agli investitori privati di investire nelle reti. Mi sembra una cosa positiva poter portare e vendere all’ingrosso a loro una rete migliore”. Per Gropelli, “l’investimento beneficerà anche loro perché avranno una rete migliore”.
Il caso della Corea del Sud
Non sono solo gli operatori virtuali a essere diffidenti – se non apertamente contrari – verso questa iniziativa.
La European Internet Exchange Association (o Euro-IX), che rappresenta le società attive nelle infrastrutture di rete come Equinix e Extreme Networks, ha inviato una lettera alla Commissione Europea sottolineando che la proposta “rischierà di essere dannosa per il corretto funzionamento della connettività a Internet e del mercato di scambio e distorcerà quindi la concorrenza. L’esperienza dei cittadini nelle basilari operazioni aziendali, nella condivisione dei dati, nell’accesso ai servizi in cloud e allo sviluppo dei progetti di ricerca sarà impattata negativamente”.
E secondo Euro IX il legislatore europeo già ha un caso storico a cui guardare per comprendere le implicazioni dell’alterazione delle regole sulle infrastrutture di rete e di come vengono interconnesse: la Corea del Sud.
In Corea del Sud, una serie di novità – riassumibili nell’idea “chi invia paga” (Sender Party Networks Pays o SPNP), riferendosi alla proporzione fra il pagamento e la quantità di traffico dati inviati alle reti – ha generato varie distorsioni e, secondo alcuni, dei peggioramenti.
Una caratteristica data per scontata dell’interconnessione di Internet è che gli operatori di telecomunicazioni possono scambiarsi i dati dei rispettivi clienti in modo da instradarli correttamente e in modo efficace ed efficiente: è una delle basi del funzionamento di Internet, che non a caso viene definita “la rete delle reti”.
Non c’è un organismo che stabilisce come funziona Internet, che invece è il naturale risultato di una serie di reti che, per diventare più efficienti, hanno bisogno di cooperare.
Le novità apportate in Corea del Sud a partire dal 2016 hanno aggiunto ulteriori livelli a questa situazione. Con il risultato di aver alzato i prezzi per lo scambio del traffico e aver ridotto i margini per la concorrenza. E ora il legislatore sta proponendo nuove leggi per andare a rimediare alle conseguenze di quanto apportato nel 2016.
Per Euro IX, i cambiamenti apportati in Corea del Sud “hanno abbassato la qualità e la sicurezza dei servizi forniti agli utenti finali”.
“Il timore principale di Euro-IX – prosegue la lettera – è che il modello SPNP sostituirebbe l’attuale modello basato sul mercato per l’interconnessione con un mercato dell’interconnessione altamente regolamentato in cui le regole amministrative piuttosto che le necessità tecniche o una Internet di alta qualità per i cittadini europei diventerebbero la principale discriminante per le decisioni sull’interconnessione“.
Secondo decine di Organizzazioni Non Governative di 17 Paesi, come la Electronic Frontier Foundation, Article 19 ed European Digital Rights, se l’iniziativa venisse messa in pratica, verrebbe messa a rischio la neutralità della rete.
Questo concetto, che nell’Unione Europea è definito per legge, significa che gli operatori di telecomunicazione non possono dare priorità a un servizio anziché a un altro gestendo il traffico dati e che, quindi, le risorse sono uguali per tutti.
“Gli operatori di telecomunicazione europei sono già pagati dai clienti del loro servizi di rete per il trasporto dei dati sulle loro reti di accesso; semplicemente vogliono essere pagati due volte per lo stesso servizio”, hanno detto le ONG.
Gropelli assicura però che, rispetto alla neutralità della rete, “noi abbiamo chiesto di non toccarla: c’è una legge del 2015, abbiamo fatto chiarezza. Lasciamola lì com’è”.
Per Gropelli il contributo di Big Tech, semmai, è un modo di rimediare a un’asimmetria di mercato che, come effetto collaterale, quella legge ha creato. “Ha protetto Big Tech. Non lo ha fatto intenzionalmente: la neutralità è pensata per proteggere l’utente, l’accesso alle informazioni e la concorrenza”, dice. “Per difendere queste tre cose nobili, un effetto collaterale è che di fatto vengono difesi anche il business model di Big Tech e ogni tanto Big Tech si confonde pensando che quella legge sia lì per difendere loro: ma è lì per proteggere i cittadini”.
Secondo l’organizzazione europea dei consumatori (European Consumer Organization) imporre sistemi simili a quello in vigore in Corea del Sud risulterebbe in effetti come “una potenziale distorsione della concorrenza del mercato delle telecomunicazioni, impattando negativamente sulla diversità dei prodotti, i prezzi e le performance, fino a potenziali impatti sulla neutralità della rete, che potrebbero minare l’accesso libero e aperto a Internet come i consumatori lo conoscono oggi”.
Nel considerare la possibilità che Big Tech possa supportare economicamente lo sviluppo delle nuove reti, un pensiero viene in mente: non è che gli operatori di telecomunicazioni hanno sbagliato le previsioni sul 5G, che sta costando molto più di quanto stanno spendendo per distribuirlo?
Per esempio, nonostante tanta propaganda il 5G Stand Alone – cioè una rete 5G “completamente 5G” e che dismette pezzi della rete della precedente generazione – non c’è ancora e non è nemmeno prossimo.
“Il settore telecomunicazioni è uno di quei rari settori che investe prima della domanda”, risponde Gropelli. “Fa una cosa per i profitti, come tutte le aziende, ma anche per la società. Per definizione un investimento in rete è un investimento che viene prima della domanda, che poi arriverà”.
Lo studio di ETNO ha evidenziato che gli obiettivi digitali per il 2030, cioè una connessione Gigabit per tutti, potrebbero non essere rispettati di questo passo. Significa che “45 milioni di europei rimarranno fuori da 5G e fibra ottica”, puntualizza Gropelli. “È vero che c’è un affanno del settore nel far tornare i conti fra investimenti e i ricavi. Tant’è che varie aziende di telecomunicazioni si stanno riconfigurando, vendendo anche dei pezzi”.
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