Il governo Meloni cancella le norme che puniscono i furbetti del reddito di cittadinanza. Anche chi è stato condannato con sentenza definitiva. Lo sostiene il Partito Democratico, che ha presentato un’interpellanza al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Nella quale ricorda che con la Legge di Bilancio 2023 si cancellano i primi 13 articoli del decreto legge 4/2019. E tra questi c’è anche il numero 7. Ovvero quello che definisce il reato di appropriazione indebita del reddito. Con le relative pene. Chi incassa il sussidio grazie a documenti falsi può finire in carcere per 2-6 anni. Chi “dimentica” di comunicare i miglioramenti patrimoniali o reddituali ne rischia da uno a 3. E tutti devono restituire le somme percepite se in torto. Adesso, sostiene il Pd, la Giorgia Meloni denunciava le «migliaia e migliaia di truffe» sul reddito che favorivano «mafiosi e spacciatori» ha deciso un colpo di spugna.
Il colpo di spugna
L’interrogazione del Pd, oggi illustrata da Repubblica, elenca le conseguenze dell’abrogazione. Chi ha truffato lo Stato non è più punibile perché la sua azione non è più classificabile come reato. E, sostiene l’interrogazione, «l’esecuzione della pena non può avere corso». «Ogni altro effetto penale della condanna decade. Il giudice dell’esecuzione dovrà revocare, infine, la sentenza definitiva di condanna o il decreto penale – si legge nell’interrogazione – «per abolizione del reato». C’è anche un altro pericolo sottolineato. Il reddito di cittadinanza nel 2023 resta in piedi, anche se limitato a sette mensilità. E oggi chi può chiederlo, nel momento in cui le sanzioni sono state abrogate, non rischia pene dichiarando il falso. Anche se qui la previsione sembra apocalittica. Perché un falso è comunque punibile con l’attuale legislazione.
Gli effetti sulla legislazione
Il professore di diritto penale all’Università di Milano Gian Luigi Gatta spiega che «la volontà del legislatore era di far venire meno solo il sussidio. Ma è irragionevole abolire, con il Reddito, i reati di chi indebitamente lo ha percepito. E faccio notare che è grave anche aver cancellato il comma 3 dell’articolo 7». Perché quel comma «revocava il Reddito e ne imponeva la restituzione al beneficiario condannato per gravi reati come l’associazione mafiosa. Quando si interviene sul diritto penale, bisognerebbe farlo con le pinze, non con la mannaia». La soluzione corretta sarebbe stata quella di «abrogare tutti gli articoli, meno il 7. Oppure dettare un’apposita disciplina transitoria». Gatta spiega il possibile effetto sulle condanne: «Il primo gennaio 2024, quando la abrogazione si realizzerà, i suoi legali chiederanno al giudice di revocare la sentenza di condanna. E il giudice sarà a un bivio. Se riconosce l’abolizione del reato, dovrà revocarla. L’alternativa, non sempre agevole, è sostenere che la condotta del condannato è riconducibile ad altri reati non abrogati, il falso e la truffa. E per questo non revocare la condanna».
L’effetto su condanne e processi in corso
Per quanto riguarda i processi in corso invece «il giudice deciderà, anche in questo caso, se chiudere il processo per intervenuta abolizione del reato o invocare, se possibile, altre norme del Codice penale come quelle sul falso e la truffa. Certo, l’abrogazione del decreto sul Reddito e del suo articolo 7 ampliano a dismisura i margini di manovra degli imputati, dei condannati e dei loro avvocati». Dal primo gennaio 2024 potranno invocare l’applicazione di questa norma di maggior favore. Perché a loro darebbe ragione il principio costituzionale di retroattività della legge penale più favorevole. Ora il governo, spiega Gatta, può fare un decreto per rimediare. Il quotidiano riporta anche il commento di Debora Serracchiani, capogruppo Pd alla Camera: «Nella furia di colpire i poveri hanno finito per premiare i truffatori».
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